La figura dell’insegnante alla luce dei modelli indiani

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Riflessioni sulla figura dell’insegnante alla luce dei modelli indiani. Nell’India premoderna la figura del maestro viene indicata con diversi termini, che oggi possiamo ripensare adattandoli al nostro contesto:

1) Paṇḍita: indica uno studioso, un erudito. Possiamo intenderlo come colui che ci trasmette in modo chiaro e preciso una serie di nozioni intellettuali, di conoscenze, di saperi tradizionali. Lo possiamo paragonare a quello che oggi è un professore, uno studioso, un accademico. Il suo compito è fondamentale perché consiste nel raccogliere, organizzare, selezionare, custodire, trasmettere e divulgare un bagaglio di nozioni e un corpus testuale.

Egli non ha la funzione di un semplice riproduttore di sapere, ma ha un ruolo assai più attivo: spesso si pone come coscienza critica e si sforza di esaminare le cose da una prospettiva quanto più possibile imparziale, adottando un taglio storico e filologico, magari mettendo in discussione narrazioni dogmatiche o settarie.

Uno dei suoi compiti principali è dare informazioni chiare e corrette e mettere a disposizione di tutti il suo sapere e le sue ricerche. Un paṇḍita non deve essere necessariamente un praticante per fare bene il proprio lavoro. Ciò che il paṇḍita trasmette è innanzitutto un bagaglio di conoscenze, mentre la sua esperienza personale resta in secondo piano.

2) Ācārya: indica un insegnante autorevole, qualcuno che avendo innanzitutto una buona conoscenza del cammino da percorrere è impegnato in prima persona nella pratica. A differenza del paṇḍita, che si limita a trasmettere nozioni e essere o no un praticante, l’ācārya cerca di realizzare gli insegnamenti in prima persona e si sforza di condurre, istruire e consigliare gli altri sul cammino che lui stesso sta percorrendo.

In ambito buddhista si parla di kalyāna-mitra, ovvero di un ‘buon amico’, inteso come l’insegnante anziano o anziana, che da più tempo dei suoi allievi percorre il sentiero e dunque è in grado con la sua esperienza di fungere da guida per chi lo ha appena intrapreso.

Al pari del paṇḍita trasmette agli allievi un sapere e un bagaglio di nozioni, e si sforza di farlo con amore, onestà e rigore, ma i suoi insegnamenti sono incentrati maggiormente sulla pratica e su ciò che la riguarda. È questa la figura ideale dell’insegnante di yoga oggi in Occidente: qualcuno che mette a disposizione degli allievi non soltanto la sua conoscenza e le sue nozioni, ma anche la propria esperienza.

Forte della sua autorevolezza più che della sua autorità, non si pone su un piedistallo ma ha un rapporto amichevole e rispettoso con gli allievi, che si rivolgono a lei o a lui per apprendere e ricevere consiglio e sostegno. Spesso la distinzione tra paṇḍita e ācārya è molto sfumata: a volte capita che uno studioso abbia un rapporto molto intimo e profondo con l’oggetto studiato e che il suo studio non possa prescindere da una ricerca esistenziale.

Analogamente, l’ācārya spesso è uno studioso oltre che un praticante. Bisogna ricordare che la distinzione tra studioso e praticante è a ben vedere artificiosa e non trova un vero riscontro nella realtà dei fatti: nello yoga studio e pratica sono un tutt’uno.

Soprattutto oggi in Occidente, dove lo yoga viene spesso inteso erroneamente come mera pratica o tecnica, è importante porlo all’interno di un orizzonte di senso più ampio, ed è appunto questo lo scopo principale dello studio formale.

3) Guru: si tratta della figura di maestro più rara, complessa e problematica. Secondo molte soteriologie indiane è la condizione fondamentale per percorrere con successo un sentiero spirituale. Il guru è qualcuno che si suppone abbia percorso per intero un cammino di liberazione e dunque incarna l’ideale stesso del praticante realizzato.

In virtù della sua completa realizzazione si suppone sia in grado di guidarci in modo infallibile verso di essa. La figura del guru in Occidente spesso entra in conflitto con i valori democratici, libertari e moderni, rivelando l’abisso culturale che in questo ambito ci separa dal mondo sudasiatico: se nella storia dello yoga è normale e auspicabile affidarsi a un guru, nell’Occidente di oggi questa figura è stata oggetto (specialmente negli ultimi decenni) di una critica radicale e spesso impietosa.

Molti guru sono stati travolti da scandali e molte loro narrazioni sono state oggetto di decostruzione da parte di schiere di accademici, giornalisti o ex discepoli vittime di abusi.

Come insegnanti di yoga è importante non riprodurre modelli di relazione guru-discepolo, che rischiano di essere rovinosi. Il daṇḍa, ovvero il ‘bastone’, indica secondo Krishnamacharya l’autorità e l’autorevolezza dell’insegnante nei confronti dell’allievo.

In alcuni casi, ad esempio nell’ambito di una relazione ben consolidata tra un allievo e un insegnante, si può ammettere in linea di principio che quest’ultimo adotti metodi ‘forti’, magari assumendosi il rischio di entrare nel merito della vita privata di un allievo, oppure suscitando intenzionalmente in lui o lei una reazione, oppure spronandolo o redarguendolo. Si tratta di un terreno scivolosissimo. 

Il miglior daṇḍa, potrebbe essere  l’ironia, l’umorismo. Si può veicolare un messaggio, un’ingiunzione, in modo dolce e sottile, usando magari un tono ironico (e non sarcastico) che non ferisce l’allievo ma pianta in lui o in lei un seme che ci si auspica possa germogliare.

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