I QUATTRO SCOPI DELL’UOMO (PURUṢĀRTHA) E LA FUNZIONE DELLO YOGA

Secondo una delle dottrine fondamentali della religione hindu, ciascuno è tenuto a perseguire un certo gruppo di valori definiti «scopi dell’uomo» (puruṣārtha), che insieme sono indispensabili al benessere del singolo individuo, della società e del mondo intero: essi sono il dharma (la legge, o norma), l’artha (l’utile) e il kāma (l’amore o desiderio).

Questi tre sono noti anche con il nome di trivarga, o «triade».

1) Con il termine dharma si indica innanzitutto l’ordine cosmico. Adeguarsi al dharma significa adeguarsi a questo ordine supremo, che si traduce concretamente nell’osservanza delle norme rituali e delle leggi. Adeguarsi al dharma consiste dunque nell’uniformarsi a tutto ciò che viene ritenuto giusto e che la tradizione, legata ai Veda e alla letteratura normativa a essi ispirata (dharmaśātra), sancisce come tale.

Adeguarsi al dharma consiste in modo particolare nel rispetto dei doveri relativi alla classe sociale di appartenenza (varṇa), e allo stadio della vita in cui ci si trova (āśrama), ovvero la condizione di studente casto (brahmacarya), di capofamiglia (gṛhastha), di eremita abitante nelle selve (vānaprastha) e di rinunciante (saṃnyāsa). Il dharma perciò varia a seconda del contesto e della persona: ciascuno ha il proprio svadharma o «dovere personale».

2) L’artha, ovvero l’utile, esprime in senso lato ogni fine mondano per cui si agisce, in modo particolare l’interesse materiale, il potere, la prosperità, la realizzazione personale e la ricchezza. La figura per eccellenza che incarna l’artha è il re, il cui dovere è la tutela del benessere suo, del regno e dei sudditi.

3) Con kāma si ci si riferisce essenzialmente al desiderio e alla ricerca del piacere, in ogni sua forma, ma soprattutto a quello che, nella visione indiana, viene considerato il piacere supremo: il piacere erotico.

4) Un fine ulteriore, distinto dai tre precedenti, è il mokṣa, ovvero la liberazione dai legami che tengono imprigionato ciascun individuo nel ciclo continuo delle rinascite (saṃsāra), ciascuna determinata dalla azioni (karman) del singolo, azioni più o meno conformi al dharma, e dunque foriere di rinascite più o meno positive.

Tale meta, almeno nella visione brahmanica ortodossa, è una meta difficile da realizzare, riservata a individui eccezionali; per la maggior parte degli uomini, incapaci, almeno in questa vita, di perseguire una meta così elevata, i restanti tre scopi rappresentano mete assolutamente legittime: ciascuno ha il pieno diritto di ricercare il piacere e l’utile, a patto che tale ricerca sia condotta in armonia con il dharma, consapevoli del proprio ruolo nella società e nel mondo.

Come possiamo, noi occidentali, farci ispirare da questo modello, così fortemente legato alla società e ai valori hindu? Proviamo innanzitutto ad ampliare i concetti di, kāma, artha, dharma e mokṣa, elaborandoli secondo modelli più vicini al nostro linguaggio e al nostro stile di vita.

Ciascuno ricerca istintivamente il piacere ed è animato da una spinta, l’eros, che si configura come la continua tensione verso ciò che ci manca per sentirci completi. L’eros, o kāma, è dunque una spinta vitale fondamentale, che può esprimersi in modi assai differenti, costruttivi, distruttivi o autodistruttivi. Allo stesso modo, ciascun essere umano aspira in vario modo a realizzarsi e a realizzare, persegue mete professionali o personali, cercando di ricavarne agio e sicurezza.

Per molti la realizzazione personale è strettamente legata all’avere e al potere (cioè all’artha), e questa ricerca (al pari della ricerca del piacere, con cui è strettamente legata) può avere esiti più o meno felici. Pensiamo a quanto incide sulla qualità della vita di ciascuno l’avere o meno un impiego soddisfacente, o avere o no realizzato le proprie aspirazioni, eccetera.

L’ambito di kāma e artha rappresenta perciò un terreno fondamentale: è da qui che hanno origine molte sofferenze e disagi, ed è in questi ambiti che ciascuno investe gran parte delle proprie energie. Ma accanto a queste due spinte fondamentali c’è anche il dharma, che possiamo intendere come la dimensione ideale e morale dell’individuo.

Ciascuno ha i propri valori, legati all’educazione e alla famiglia, alle esperienze vissute, al modo di vita che ha scelto, eccetera. Ciascuno è invitato a trovare il proprio svadharma, ovvero il «dharma personale», subordinando ad esso la ricerca del piacere e dell’utile. Questo concetto viene ben esemplificato in un passo della Bhagavadgītā (III.35): 35. Meglio il nostro proprio dovere, benché imperfetto, che il dovere altrui ben adempiuto.

Meglio la morte nell’adempimento del proprio dovere: fonte di paura è il dovere altrui. Questo passo è un invito a comprendere chi siamo e dove siamo, ovvero ad accettare il nostro posto attuale nel mondo, con i suoi limiti e le sue opportunità, piuttosto che inseguire mete ideali che non ci appartengono. È anche un invito a comprendere quali sono le spinte che ci animano (kāma) e quali sono gli scopi e le realizzazioni a cui aspiriamo (artha), cercando per quanto possibile di armonizzarli con i nostri valori.

In questo lavoro giocano un ruolo fondamentale sia la conoscenza (jñāna), intesa come riflessione e discernimento, sia la disciplina sistematica (abhyāsa) e il distacco (vairāgya), ovvero gli elementi fondamentali della pratica yogica. Nella vita di ciascuno, in momenti e in circostanze diverse, può affacciarsi una spinta di segno diverso, una spinta verso la liberazione (mokṣa).

La ricerca di kāma e artha è infatti una tensione che ha come oggetto esperienze finite e temporanee, che non possono fornire una felicità duratura: i più raffinati piaceri alla fine ci lasciano insoddisfatti, l’accumulo di denaro e la carriera non portano la felicità, ma sono spesso fonte di preoccupazione e di stress. La ricerca del kāma e dell’artha, anche quando è in armonia con il dharma, ci lega al mondo essendo necessariamente vincolata all’azione (karman) e ai suoi frutti.

Il dharma, il kāma e l’artha rappresentano il pravṛtti mārga, la «vita attiva» che perpetua incessantemente sé stessa. La spinta verso il mokṣa, o lo scioglimento dei legami, rappresenta il nivṛtti mārga, ovvero la via che porta alla pace e allo scioglimento dei legami.

Grazie a una riflessione approfondita, a una pratica disciplinata e a una spinta alla rinuncia e al distacco (il termine vairāgya indica lo «scolorirsi», quindi la perdita di potere attrattivo di ciò che normalmente era oggetto di attaccamento), ci si incammina in una direzione diversa, che ha come meta la pace, una pace che, nella visione dello yoga, è legata al kaivalya, ovvero all’«isolamento» del principio spirituale, della nostra vera identità, dalla falsa identificazione con la prakṛti.

Lo yoga, come il dharma, si adegua al contesto, e dunque deve tenere conto di tutti e quattro i fini dell’uomo. La pratica dello yoga così come insegnata e concepita da Krishnamacharya, si rivolge in modo particolare ai «capifamiglia», ovvero a quelle persone che vivono nel mondo, hanno una vita affettiva, un lavoro, una serie di responsabilità, di aspirazioni e interessi.

Per un capofamiglia lo yoga è al servizio del dharma, e lo sostiene in una ricerca misurata ed equilibrata del kāma e dell’artha. Lo yoga dona il vigore fisico e la stabilità mentale necessaria a far fronte agli impegni quotidiani (che hanno quasi sempre a che vedere con il kāma, l’artha e il dharma).

Ma lo yoga è anche altro: sostiene e favorisce l’introversione, il raccoglimento, la ricerca interiore o «spirituale». Specialmente nella fase finale della vita, quando la ricerca del piacere e dell’utile hanno perso colore, lo yoga può divenire uno strumento prezioso per avvicinarsi a quell’oltre che attende ognuno di noi al termine dei propri giorni.

 

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